Massimo Donà

SACRE CONSONANZE
Sulla produzione artistica di Luciana Cicogna

"La bellezza è l'altro, l'assolutamente altro. L'inaccessibile, l'inconoscibile. L'inconoscibile noi lo sappiamo, ma non vogliamo confessarlo; è ciò che ci è più intimamente noto"

Andrea Emo, Quaderno 387, 1978, p.94.

Un fare che insiste ossessivamente nella ricerca di un equilibrio 'perfetto'; una vera e propria riflessione sull'ou-topia, è dunque quella che Luciana Cicogna conduce da tempo. Una riflessione sulla sua sempre possibile esperibilità.
Certo, un'ou-topia consegnata all'indefinito dell'immaginazione è quella che l'artista veneziana cerca pazientemente di proiettare sullo schermo trasparente dell'opera. Mostrandosi per ciò stesso consapevole della natura puramente poietica dell'armonia.
Per Luciana Cicogna è infatti assolutamente evidente: la nostra esistenza quotidiana 'manca' di tale status; e il suo fare 'mostra', per dir così, che solo tale mancanza può muoverci verso i labili, incerti, eppur necessari territori dell'estetico.
Un approccio sostanzialmente 'classico' è dunque il suo; che rifugge dalle roboanti motivazioni che hanno depistato buona parte della modernità, facendo troppo spesso credere che ben altri valori, ben altri scopi fossero in gioco nelle inquiete vicissitudini della produzione artistica.
Perciò il suo operare è quanto mai 'esemplare'.
Un monito per quanti – e sono la maggioranza – continuano a credere che dalla potenza dell'estetico ci si debba attendere un'indicazione per la prassi teleologicamente ordinata della quotidianità. Quasi non ci restasse che sperare in una sorta di messaggio affidato alla bottiglia e alle imprevedibili vicende del destino; che solo a pochi sarebbe comunque dato decifrare e trasformare in ethos capace di indirizzare verso il 'bene' l'agire universale, e dunque la prassi di tutti e di nessuno.
Le sue tavole, le sue tele, i suoi acquerelli, insomma, resistono a tale ricatto; e lo smascherano nell'atto stesso del loro silenzioso mettersi in mostra.
Ma lo fanno con discrezione; educate a quel 'pudore' che dovrebbe contrassegnare ogni nostra azione, ossia ogni nostra concreta messa in gioco. Solo esso potendo testimoniare la consapevolezza di una comunque impegnativa messa a nudo – quella che ogni opera d'arte di fatto costituisce, in quanto in grado di spogliarsi (indipendentemente dalle intenzioni più o meno esplicite del suo 'autore') di qualsivoglia obsoleto paramento, e in primis di quelli sempre e comunque presi in prestito dalla inesauribile bottega dei 'buoni propositi'.
Luciana Cicogna sembra esserne lucidamente consapevole; e non tanto per una elaborazione teorica che l'abbia consequenzialmente condotta a tale esito, o magari per una arbitraria e comunque 'pusillanime' decisione di chiamarsi fuori dal difficile e arrischiato gioco della polis.
No, l'artista veneziana sembra aver capito alla perfezione (una comprensione che è innanzitutto delle sue 'opere' e della sua pratica creativa, prima che della sua persona e delle sue scelte esistenziali) innanzitutto questo: che l'opera cui non può peraltro esimersi dal consegnare una vita perfettamente autonoma e libera, è chiamata a decostruire ogni inutile maschera; che essa è vocata cioè a vanificare in toto l'effetto seduttivo prodotto dall'abito che le si sarà voluto di volta in volta far indossare.
Luciana Cicogna, insomma, sa benissimo che nelle sue opere lo 'spirito' della creazione, nonché il ritmo di un esistere che la renderà sostanzialmente ingiudicabile, la esporranno all'altro (quello stesso con cui di norma si cerca di patteggiare una convivenza comunque sostenibile) priva di ogni difesa. Ossia, perfettamente impotente. E dunque affidata a quella silenziosa oggettualità che, sola, può riflettere la nuda e improgettabile esistenza che ci viene sì consegnata dal destino, indipendentemente dalle nostre aspettative, ma che, nello stesso tempo, agisce in noi e nel nostro fare originario quale condizione originaria delle sue stesse sempre riprogettabili strategie.
Questa la radice di una inattualità che rende l'opera dell'artista veneziana quanto mai 'profetica'. Volta cioè ad ammonirci che un possibile futuro per l'arte e la sua semplice, e per ciò stesso destabilizzante, irruzione sarà sempre e comunque ipotizzabile. Quasi a dirci che sì, proprio il fragile equilibrio da essa custodito (e restituito ad un'esperienza sempre ancora possibile) potrà imporsi nella forma della sacra esemplarità dell'evento.
E convincerci del fatto che, proprio nelle sue delicate consonanze – ovvero, negli scarti impercettibili che, sulla sua mobile superficie, sembrano volti al ripristino di un equilibrio già da sempre perduto –, proprio in tali 'movimenti' senza meta, dovremo in qualche modo imparare a riconoscere l'inconfutabile 'riflesso' di una voce indecifrabile, ma, proprio perciò, assolutamente vera; ossia, priva di contraddittorio. Una voce muta come quella disperatamente cercata nel cuore più profondo della significazione da un grande poeta come Hugo von Hoffmannsthal.
Perciò le opere di Luciana Cicogna ci invitano alla sospensione del giudizio; e si fanno per ciò stesso incontrare 'fiduciose'. Non si impongono, cioè, pre-potenti al fruitore; e non constringono a prender partito. Insomma, non si schierano mai da un parte o dall'altra; e riescono, proprio per questo, a vanificare ogni nostro tentativo di inscriverle nell'alveo dell'astrazione o in quello del realismo mimetico.
Sulla loro sempre indefinita cornice vengono quindi fatte morbidamente 'vibrare' e 'respirare' delle forme che costituiscono l'icona perfetta del puramente 'possibile'. Di ciò che potrebbe essere 'albero', 'cuore', 'corpo umano', ma anche 'farfalla' o 'fiore'… di ciò che ri-cor-da tutto questo, ma di tutto questo dice nello stesso tempo la più evidente 'negazione'. Riconsegnando tutta questa possibile esistenza determinata 'al suo sempre individuale esserci'; ovvero a quella enigmatica singolarità che nessun concetto e nessuna categoria universale potranno mai inscrivere nell'ordine del 'che-cosa' (e dunque del significato).
Pure esistenze sostenute da 'rapporti' incerti, mai astrattamente geometrici, ma sempre animati da scarti, disequilibri e asimmetrie che, sole, avrebbero potuto restituire la potenza di una comunque evidente 'armonia' alla sua originaria indefinibilità. E dunque alla sua vera 'libertà' – ad una libertà che non avrebbe mai potuto essere, quindi, quella familiare alla nostra quotidiana hybris teleologica, ma, piuttosto, quella sempre e solamente riconoscibile nella nuda cosa con cui abbiamo tutti ineludibilmente a che fare. Ovvero, nelle sue impercettibili oscillazioni; nel ritmo sereno e dolce di un esistere che ha a che fare con la 'grazia'. E dunque con una disposizione che è puro 'dono'; e che allude all'insondabile mistero custodito nei rari gesti di cui l'umano sa essere, talvolta, miracolosamente capace. E che la più recente produzione dell'artista veneziana sa consegnare anche all'ingombrante potenza luminosa dell'oro.
Sì, perché anche l'oro, che ha iniziato a far discretamente e sommessamente capolino nell'ultima produzione di Luciana Cicogna, non pretende alcuna drastica 'conversione'. Non rinvia cioè alla potenza insostenibile del Sacro; quello cui una lunga e aurea tradizione ci aveva peraltro 'convinti'.
No, anche in questo caso la sacralità di fatto chiamata in causa ha piuttosto a che fare con la sommessa rivelazione di un'affezione "silenziosa" ed "intima" – potremmo dire quasi 'materna'. Come quella della madre per i propri figli; anzi, come quella che ci rende tutti appartenenti ad un'unica famiglia – che nulla ha a che fare, però, col genos… ovvero con un'appartenenza che troppo spesso divide e separa, più che unire. Con un'appartenenza in virtù della quale, dunque, ogni condivisione dovrebbe farsi innanzitutto pietosa comprensione, ma mai arrogante e nefasta definizione.
Perciò la sacralità chiamata in causa dai suoi recenti "oroalberi" rinvia ad una radice che 'libera'; e, proprio in questa prospettiva, non impone alcun assoggettamento. Ma induce piuttosto a ritrovare un ritmo inedito, delicato e lento; non più vincolato alle brusche accelerate imposte dalla vita e dalle sue quotidiane necessità.
Ecco in che senso, le morbide campiture di colore in cui Luciana Cicogna inscrive il nostro sguardo costituiscono una chance tanto preziosa quanto rigeneratrice; cui la nostra esistenza e la sua inutile volontà di senso sono invitate a guardare come all'exemplum di un 'possibile' sempre aperto davanti a noi. Certo, inusuale, e forse anche improduttivo, ma proprio per ciò impegnato a educarci a un ritmo innocente e originariamente mobile… dolcemente oscillante – che mai nessuno potrà mai impedirci di riconoscere nello specchio libero e pervicacemente 'armonico' della vera artisticità.

 

Febbraio, 2009