Massimo
                      Donà 
                    Luciana
                      Cicogna, ovvero ‘della leggerezza e della levità
                      più assolute’. Come quella dei suoi oggetti
                      artistici, delle sue forme improbabili. Nate, tutte, dalla
                      sospensione della comune oggettualità empirica -
                      forme definitivamente staccate da qualsiasi base sicura,
                      da qualsiasi piedistallo, da qualsiasi terreno sicuro, e
                      private di qualsiasi con-testo. Forme assolute, perchè
                      realmente non determinate e neppure in alcun modo determinabili.
                      La forma, nelle opere di Cicogna, diventa davvero ‘pura’,
                      stagliandosi su di uno sfondo che è reale abisso,
                      e mai ‘mondo’. 
                      Ma l’oggetto, la cosa, "soli", non sono
                      ciò che sono. Secondo una solitudine che li rende
                      eccezionalmente “in-significanti”, inutili cioè
                      ai nostri appetiti di miseri ed inappagabili soggetti. Nulla,
                      in tali inconsistenti scenari - anche là dove l’apparenza
                      potrebbe forse ingannarci - è infatti posto per alludere
                      a questa o quella forma propria dell’ambito familiare
                      che esperiamo quotidianamente. Si tratta di un cuore? O
                      piuttosto di uno scudo, di un Continente, di un volto? O,
                      ancora, di un oggetto qualsiasi e preferibilmente di uso
                      comune?
                      No; in verità tali immagini si presentano sicure,
                      al riparo cioè dalla pretesa del soggetto di ricondurle
                      a sè, al proprio ordine, e dunque alle proprie aspettative
                      di senso. E perciò si mostrano ad uno sguardo le
                      cui possibili esegesi (quelle cui non ci sembra di poter
                      rinunciare, se non altro per il fatto che è un ‘soggetto’,
                      appunto, a percepirle) sono esse stesse, innanzitutto, ad
                      essere come sospese in un irrisolvibile “forse”.
                      E’ un cuore, quello? ‘Forse’. E quell’altra
                      forma, è forse un volto? ‘Forse’. Solo
                      questo è consentito.
                      L’osservatore, per così dire, può solo
                      ri-conoscerle come condizioni di possibilità di un
                      mondo oggettuale ancora da darsi in esse, come stati relazionali
                      in cui noi stessi ci dissolviamo senza possibilità
                      alcuna di conferme. Si tratta quindi di ‘cose’
                      che nell’opera mai si risolvono in mere conferme o
                      smentite rispetto alle diverse letture di questa o quella
                      disposizione empatica. Cose che producono esse stesse, piuttosto,
                      l’ermeneutica in atto come ciò che, solamente,
                      può trasformale in reali objecta (e dunque far perdere
                      ad esse la quidditas che le rende autentiche espressioni
                      artistiche).
                      Ma il procedimento ermeneutico non è qui assolutamente
                      reclamato, se non per chi crede ancora alla possibilità
                      di un senso ultimativamente oggettuale dell’esserci
                      di ciò che peraltro ‘esiste’ solo in
                      relazione a tale senso. Qui l’ermeneutica deve farsi
                      da parte; necessario essendo invece quel disporsi nel "frammezzo"
                      che l’opera stessa dice, nonchè il nostro riuscire
                      a farci ‘pura negatività’ - quella secondo
                      la quale e per la quale tanto il soggetto quanto l’oggetto
                      possono tornare a far-si mondo.
                      Nelle opere di Luciana Cicogna, allora, non si vuole in
                      alcun modo dar vita ad una sorta di nuova oggettualità,
                      magari assai più paradossale di quella già
                      rinvenibile nello scorrere dell’esistenza empirica
                      - da cui l’astrattismo, che come tutti gli ‘ismi’,
                      è molto pericoloso, anche solo perché implicante
                      la persuasione di poter pervenire ad una qualche immutabile
                      verità del mondo (ossia ad una oggettualità
                      più risolutamente oggettuale di quella empirica).
                      Come se le geometrie improbabili ed irregolari prodottesi
                      come corpo proprio di queste opere potessero davvero consentirci
                      di conoscere il vero volto della comune oggettualità
                      mondana.
                      L’operazione astrattiva di Cicogna (tracce, memorie
                      di quello che veniva definito ‘spazialismo astratto’
                      sono senz’altro rilevabili in queste opere) è
                      di tutt’altro genere ed azzardo poietico; l’artista
                      non guarda agli oggetti per dirli meglio di quanto potrebbe
                      essere fatto da qualsiasi altro uomo di conoscenza, ma li
                      svolge per un atto che chiamerei de-situazionista.
                      Perciò il suo fare è innanzitutto un atto
                      liberatorio; esso libera cioè la forma da quel contesto
                      mondano che la renderebbe ineludibilmente oggettuale, e
                      dunque la sospende; facendola per ciò stesso vera
                      ‘cosa-in-sè’ (di là da ogni troppo
                      semplicistico ed inaffidabile ‘per-sè’
                      - falsificante perchè sempre diretto a dire il senso
                      che il soggetto può recepire o desiderare). L’espressione
                      ‘cosa-in-sè’ volendo qui significare
                      propriamente la capacità delle cose messe in forma
                      dall’artista di farsi “assolute”, cioè
                      sciolte da ogni legame determinante - ciò che le
                      renderebbe tutte ‘relative’, dipendenti dal
                      mondo che le fa appunto essere. Gli azzurri, i rossi, gli
                      arancioni, che circondano tali forme sono infatti tutti
                      modi della più perfetta indeterminatezza, dell’abisso
                      su cui queste ultime rimangono come sospese per incanto,
                      e al di là di ogni legge fisica e al di là
                      di ogni aspettativa intenzionale del soggetto.
                      Ma l’artista crea anche spazi privi di profondità
                      prospettica; e - in ciò un altro straordinario utilizzo
                      del ‘paradosso’ - lo fa proprio attraverso quella
                      reale e concretissima sovrapposizione di strati materici
                      che istituisce una, anche se impercepibile, vera tridimensionalità.
                      Il "profondo" prospettico si afferma, si pone
                      in essere, per darsi nella forma della sua più radicale
                      negazione. E solo affermandosi, facendosi reale corpo dell’opera,
                      può veramente annullarsi, sparire nelle trame di
                      una tessitura coloristico-formale perfettamente in-sensata.
                      E poi, quale effetto ultimo e però decisivo, ciò
                      che viene a prodursi è una decisa destituzione dell’unilateralità
                      determinata del soggetto stesso; ciò per cui, davvero,
                      al soggetto stesso è dato ritrovare l’insensatezza
                      della propria ineludibile oggettualità (essa stessa
                      sensata solo agli occhi dell’anelito empatico cui
                      nessun soggetto mai può realmente rinunciare nel
                      corso della propria esistenza). Quella che può trasformarsi,
                      sic et simpliciter, nella perfetta ed unica condizione del
                      senso - e dunque nella più sensata delle sensatezze
                      (cosa di più sensato di ciò il cui significare
                      è sempre e solamente significante il proprio puro
                      mostrarsi, ossia il farsi evento di una reale relazione
                      che nell’esserci di un soggetto ed in quello del suo
                      corrispondente oggetto sempre ha luogo come il vero eveniente?).
                      Nel solum perfetto.
                      Da ciò la possibilità di rendere visibile
                      - di ciò si mostra capace il fare di Luciana Cicogna
                      - la di-stanza in cui e per cui ogni spazio è reso
                      possibile. Relazione di leggerissime ed impalpabili pre-datità
                      che solo la vita potrà riconsegnare alla loro riconoscibile
                      e prevedibile mondità (al loro esser date, appunto,
                      ad una determinata intenzionalità soggettiva). Giochi
                      gratuiti che danzano sulla tela come segni di un’infanzia
                      che nulla ha a che fare, però, con l’umana
                      fanciullezza. È solo apparente infatti il richiamo
                      a certi giochi infantili reinterpretati da Klee o da Mirò.
                      No, qui non si tratta di un mondo visto con gli occhi del
                      bambino, ossia con una grazia incontaminata che renderebbe
                      il tutto ‘innocente’. In questione è
                      piuttosto la possibilità di ‘vedere’
                      l’invisibile relazionalità che il mondo come
                      tale - qualsiasi mondo - e qualsiasi punto di vista sul
                      mondo, possono solo “presupporre”.
                      Qui un cuore che non- è un cuore.
                      Là un volto che non- è un volto.
                      Qui ancora un Continente che non è
                      tale.
                      E così potremmo continuare all’infinito per
                      improbabili assonanze ed analogie che nulla hanno della
                      vaghezza ancora ‘simbolica’. Il mondo che ci
                      viene presentato è nelle opere di Cicogna ciò
                      che si dà nella forma del suo perfetto ‘non-esserci’.
                      E perciò è espressione di una assoluta levità.
                      Ma, da questa stessa struttura viene anche la gioia che
                      vi si respira in ogni tratto, in ogni invenzione formale
                      - la gioia della perfetta mancanza di ostacoli, di opacità,
                      di tutto ciò che nella vita quotidiana ci è
                      costantemente dato come prova da superare, e dunque come
                      oggetto, corpo obiettivato, gettato di-contro alla nostra
                      fragile perchè ‘vuota’ soggettività.
                    1996